Recensione - Just Cause 3
Il Gioco
Dopo aver attraversato il globo spodestando dittatori d'ogni sorta, il buon Rico scopre che l’erba cattiva è cresciuta nel giardino di casa e decide di tornare in patria, l’isola mediterranea di Medici, per abbattere il regime di Di Ravello, dittatore cliché che impone il suo volere con la violenza e l’oppressione. Atterrato sull’arcipelago, Rico scopre che il modo migliore per distruggere la gabbia creata dal despota è quello di smantellarla sbarra dopo sbarra con l’aiuto della forza ribelle che da anni compie azioni di guerriglia contro il sistema. C’è poco altro da aggiungere ad una trama che funge da mera giustificazione per dare carta bianca alle capacità distruttive del nostro eroe: in compagnia di alleati ed amici che lo sostengono con indicazioni, equipaggiamento e forza d’attacco, Rico comincia quindi a conquistare palmo a palmo l’isola di Medici.Un palmo a palmo che si traduce in una meccanica di gioco ormai ben collaudata nel campo degli open world: lo smantellamento di obiettivi specifici atto a ridurre la presenza nemica in tutti i settori della mappa. Sembra di osservare un sistema di vasi comunicanti in movimento: quando si toglie il liquido da una parte, l’altro prende il suo posto per occupare lo spazio rimasto libero. Altro esempio calzante è quello di un virus che, inoculato nel sistema, lo distrugge dall’interno pezzo dopo pezzo. La metafora del virus non è nuova per chi vi scrive, avendola già presa come esempio durante la recensione di Mad Max, ed a ragione visto che Just Cause 3 è sviluppato sempre da Avalanche Studios. Da questo punto di vista il team di sviluppo ha approfittato dell’effetto carta carbone proponendo le idee già sperimentate nel mondo di Miller e cambiando solamente la forma - letteralmente - dei simulacri da distruggere. Non c’è un’accusa in questo: il sistema, come già detto, è particolarmente in voga nel genere, quanto piuttosto un avviso: se avete trovato ripetitiva la formula utilizzata in Mad Max allora Just Cause 3 non ha nulla di diverso da offrire se non l’ambientazione e un focus maggiore su meccaniche verticali rispetto alla visione postapocalittica basata sulla religione della macchina.
D’altro canto c’è da dire che il gameplay di Just Cause 3, prendendo ed elevando a potenza quanto visto nei due precedenti capitoli, potrebbe essere il peso sulla bilancia in grado di portare molti giocatori a villeggiare su Medici. Tutto si basa sull’assurda capacità di Rico di ignorare qualsiasi legge fisica imposta a noi mortali. Con l’utilizzo di un rampino, di un paracadute e di una tuta alare, il prode guerrigliero è di fatto in grado di portare il caos dove passa con pochi gesti. Il rampino, soprattutto, è uno strumento talmente versatile da essere sostanzialmente il fulcro intorno al quale ruota tutta l’esperienza pensata da Avalanche. Con tale portentoso strumento è possibile raggiungere la cima dei grattacieli più altri in pochi secondi, o mandare qualcun altro verso l’ultimo piano agganciandolo e poi sparandolo come il proiettile di una fionda. La cosa che fa risaltare Just Cause 3 rispetto ad altri titoli è che gli esempi appena proposti sono la base dello spettro che si apre di fronte al giocatore nel momento in cui prende dimestichezza con i controlli: in un vortice di negazione newtoniana e dadaismo si possono ottenere risultati capaci di mettere in discussione la stessa relatività generale. Perché non agganciare Rico ad una gigantesca bombola del gas per poi spararlo nel cielo in un esplosivo cosplay del Dottor Stranamore? O, ancora, perché non utilizzare un elicottero come base d’appoggio per generare una fionda armata con automobili? Si può fare. In poche parole il rampino può essere utilizzato come centro di gravità che vede ruotare intorno ad esso Rico o altri due oggetti a scelta. Fino ad arrivare, nei momenti in cui il nirvana dell’aggancio raggiunge il suo apice, a vincere interi scontri contro le milizie lealiste senza sparare un colpo.
Purtroppo Just Cause 3 crede così tanto in questo aspetto che affronta con superficialità tutto il resto, offrendo in fin dei conti un ottimo gioco per fare casino, per sfogare qualche recondito desiderio di distruzione post-lavorativa. Una formula perfetta per chi decide di affrontare il titolo Avalanche un morso alla volta; gli stakanovisti, invece, incorrono nel serio rischio di riscoprirsi vittime di un loop soggetto a poche variazioni sul tema.
Non tutto è da considerarsi perduto, però: fra un accampamento e l’altro e fra una serie di oggetti da distruggere e quella successiva è comunque possibile dedicarsi ad una sfiziosa serie di sfide sparse per tutto l’arcipelago - di dimensioni rispettabili - che hanno la duplice funzione di aumentare le capacità di Rico e di affrontare in modo indiretto gli altri giocatori cercando di superarli nelle classifiche globali dedicate praticamente ad ogni azione possibile. Partiamo dal maggior tempo in volo con la tuta alare per arrivare all’esplosione più grossa realizzata con il solo rampino, senza disdegnare un’eventuale medaglia per il maggior numero di metri percorsi ruzzolando dopo una rovinosa caduta da altezze proibitive.
Infine, ingredienti di una ricetta particolarmente ricca nelle sue componenti base, vi sono i veicoli: un ventaglio di scelte che punta sempre all’assurdo, tanto da far apparire la semplice utilitaria come il vero mezzo per i sovversivi. Caccia militari, aerei da guerra, blindati, motoscafi, carri armati sono tanto reperibili quanto perfettamente spendibili nell’equazione creata con lo scopo di giungere al nichilismo termodinamico più spinto. In poche parole: se c’è, allora esplode. Un big bang in salsa mediterranea, una rivoluzione che lascerà un libero popolo di sordi.
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